Le gallerie dell'anfiteatro romano di Cagliari
I costruttori dell’anfiteatro, tra I e II secolo d.C., adattarono le caratteristiche del suolo al suo circuito, intagliando nel banco roccioso gran parte delle gradinate, l’arena, vari corridoi e altri ambienti di servizio a questi collegati, compresi i vasti ed articolati ambienti sotterranei. Anche la monumentale facciata rivolta a Sud (ormai del tutto scomparsa), che superava i 20 metri d’altezza, e le strutture diametralmente opposte, che dovevano sormontare una stretta gola rocciosa, furono costruite con i blocchi calcarei estratti da alcune grandi latomiae (cave sotterranee) aperte nelle immediate vicinanze, alcune delle quali tuttora visibili. Per il resto della costruzione, e in special modo per i sostegni interni delle gradinate, fu utilizzato invece l’opus coementicium (pietrame informe legato con abbondante malta di calce) rivestito di mattoni (crustae lateritiae), come testimoniato dai resti pur scarsi ancora conservati. All’anfiteatro si accedeva da Sud attraversando uno dei quartieri più eleganti della città, di cui nell’area della cosiddetta “Villa di Tigellio”, distante poche centinaia di metri, gli scavi archeologici hanno riportato alla luce importanti testimonianze. Secondo un calcolo recentemente eseguito, l’edificio poteva contenere oltre 10.000 spettatori, a fronte di una popolazione della Carales romana stimata in circa 35.000 persone. La grande quantità d’acqua piovana raccolta sulle gradinate ad imbuto della cavea e sull’arena, tramite varie canalette veniva convogliata verso un pozzetto di decantazione chiamato limarium. Questo, a sua volta, era collegato a un’ampia conduttura idrica scavata nella roccia, larga un metro ed alta all’incirca due. Questo antico canale, ancora percorribile e lungo 96 metri, dopo aver formato due curve molto strette destinate a rallentare la velocità dell’acqua sbocca in un grande cisternone dell’attiguo Orto dei Cappuccini. Il cisternone venne realizzato intonacando con il cocciopesto (tritume di terracotta impastato con calce) una delle antiche cave di blocchi serviti a costruire parte delle gradinate dell’anfiteatro romano. Di forma alquanto articolata, con dimensioni maggiori di circa 47 metri di profondità e 32 metri di larghezza, per un’altezza media di circa 8 metri, poteva contenere fino a circa otto milioni di litri d’acqua. Nella cisterna dell’Orto dei Cappuccini, riadattata a carcere già in periodo antico, su una parete del settore settentrionale è stato scoperto un graffito paleocristiano, raffigurante la Navicula Petri, la nave della Chiesa. Il suo autore va probabilmente individuato in un martire sconosciuto, detenuto in attesa di essere ucciso nei giochi dell’anfiteatro, attorno ai primi anni del IV secolo d.C. Come gli altri prigionieri, anch’egli fu legato a uno dei circa trenta robusti maniglioni scavati nella roccia lungo l’intero perimetro delle pareti. La loro assenza, limitata alla sola zona sotto lo sbocco dell’antico canale adduttore, potrebbe ipoteticamente ricollegarsi all’originaria presenza di una scalinata lignea che, a somiglianza di quanto avveniva nel Ludus Magnus (la caserma dei gladiatori) attiguo al Colosseo di Roma, attraverso l’antico passaggio sotterraneo per l’acqua avrebbe ora potuto consentire il trasferimento fino al centro dell’arena, in tutta sicurezza, di quanti erano stati destinati ad essere gli sfortunati protagonisti dei giochi. Con la progressiva diffusione del cristianesimo, la feroce crudeltà dei ludi che si svolgevano negli anfiteatri divenne sempre più intollerabile alle coscienze degli aderenti alla nuova fede. Già Costantino, il primo imperatore cristiano, cercò di sopprimere la gladiatura con un decreto del 325, rimasto tuttavia senza effetto a causa del fortissimo attaccamento popolare a questo genere di divertimenti. Per la scomparsa delle lotte tra gladiatori si dovette attendere fino al 438, quando Valentiniano III riuscì a vietarle per non dovere più assistere, "nell’ozio civile e nella pace domestica, a spettacoli cruenti". Alcuni reperti ceramici frammentari, trovati nel 1997 nel vicino Orto dei Cappuccini, sembrerebbero indicare che anche la zona dell’anfiteatro romano di Cagliari sia stata frequentata fino al VI secolo d.C. circa. Fin da questo periodo può darsi che sia cominciato lo smantellamento della struttura per il recupero dei blocchi, necessari alla costruzione della nuova cinta muraria urbana voluta dai bizantini, impadronitisi della Sardegna nel 534 d.C. Agli inizi dell’VIII secolo d.C., a causa della sempre più grave minaccia rappresentata dalle scorrerie dei pirati arabi, la città fu poi definitivamente abbandonata e i suoi abitanti si trasferirono sulle rive orientali della laguna di Santa Gilla, dove fondarono il nuovo insediamento fortificato di Santa Igia. Con il ritorno sull’antico sito urbano, nel XIII secolo, e la necessità di costruire nuove fortificazioni, specie sul vicino colle di Castello, pisani, catalano-aragonesi e spagnoli dovettero quindi definitivamente contribuire alla spoliazione dell’anfiteatro, non solo con la demolizione delle superstiti parti costruite, ma addirittura con la creazione di cave vere e proprie, che da un lato aggredirono i piani di sfruttamento già forniti dai gradini scavati nella roccia, e dall’altro aprirono qualche nuovo fronte estrattivo sul versante settentrionale dell’anfiteatro. Eloquente testimonianza del continuo andirivieni dei demolitori è un tratto di strada scavato nella roccia, ancora ben visibile nella zona settentrionale dell’anfiteatro, profondamente solcato dalle ruote dei carri che, carichi di materiali, si dirigevano verso il Castello. TESTI DI APPROFONDIMENTO- M. Dadea. “L’Anfiteatro romano di Cagliari”, © Copyright 2006 by Carlo Delfino editore